La sostenibilità è di moda? È una domanda retorica che è lecito farsi oggi giorno, e la risposta, senza ombra di dubbio è sì. Un’affermazione sostenuta anche dall’emergere di una nuova tendenza, il reduce, reuse, recycle, al suono delle canzoncine anni Settanta di Wallapop e Vinted.
Volgiamo uno sguardo alla storia della moda e capiamo insieme come siamo arrivati a parlare di sostenibilità.
Sostenibilità è un concetto che nasce e si sviluppa in seno alla società dei consumi. Quindi un tempo vicinissimo a noi, o per lo più ascrivibile al Novecento, ma nel tempo passato, la moda era sostenibile, naturalmente a suo modo. Sostenibilità nel Rinascimento faceva rima con praticità, e con un attento occhio agli zecchini in borsa. Un abito era un’opera d’arte, frutto del più abile lavoro degli artigiani, ovvero chi tesseva, chi confezionava e chi decorava il manufatto. Molte abilità il cui comun denominatore era il fatto a mano, e pertanto questo diventava il valore aggiunto che la veste serbava in sé. È difficile immaginarlo con gli occhi del presente fatto di fast fashion! Un abito era soprattutto un investimento, e come tale andava trattato, conservato e tramandato.
Un tesoro quindi, come testimoniato dai fitti inventari delle corti, dove nulla sfuggiva, dalla calza al cappello, passando per le stoffe ancora da confezionare. Queste poi, erano così preziose che nulla doveva essere sprecato, quindi rigorose costruzioni geometriche tra quadrati e rettangoli. Se poi compariva una linea obliqua, che poteva generare scarti o interferire con il verso del tessuto, nessun problema, perché l’onore del tessitore era sacro. O meglio, il costo della preziosa stoffa tessuta a mano per mesi, era davvero sacro.
Tutto ciò pare davvero la cosa più vicina al concetto di sostenibilità, cui potremmo aggiungere anche il riciclo e il riuso prima citati. Infatti, ci sono periodi nella storia del costume, in cui il concetto di revival era così forte, da saccheggiare gli armadi di casa. A metà Ottocento, da queste casseforti del tempo, uscivano abiti del Settecento pronti a stupire in balli in maschera; alla peggio venivano smontati e riadattati con il gusto dell’epoca. In entrambi i casi, l’oggetto cambia funzione, nel secondo poi sfioriamo l’attualissimo concetto di upcycling. Questa è una cosa che potrebbe far impazzire uno storico della moda, che si dannerà nella corretta ricostruzione filologica dell’abito originale.
Talvolta, il canto di cigno di questi inestimabili manufatti, poteva essere il fuoco. Sì certo, una sbadata dama contro un ardente candelabro, direte voi, invece il nome del nostro terribile piromane è guerra! Abiti ricchi, fatti di tessuti con trame e orditi di metalli preziosi come oro e argento. Galloni, passamanerie e merletti di oro filato, tutti capolavori di vanità che in un estremo sacrificio, venivano gettati nel fuoco. E lì, il dio Marte sovrano della guerra, è pronto a recuperare la preziosa linfa dal crogiuolo per finanziare eserciti e battaglie. Forse anche questo ultimo drammatico atto, può essere letto ai nostri occhi, come una ammissione di sostenibilità, davanti al tribunale che oggi condanna la moda. E ci ricorda che davvero la moda, a modo suo, sa essere sostenibile.
Articolo a cura di Michele Vello
Illustrazione di Marica Padoan